Germil sta mettendo i
bambini a letto quando due individui suonano il campanello. Lo
informano che devono trarlo in arresto e lo portano in un carcere su
un altro pianeta. Germil esce dalla propria cella, un antro scavato
alla roccia, solo per recarsi alle udienze dove nessuno gli spiega di
cosa è accusato. È anche costretto a sottoporsi alle attenzioni
della direttrice del carcere, una donna spietata e animata da
desideri perversi. L'unica voce amica nel carcere controllato da
robot freddi ed efficienti è quella di Narios, il compagno di cella,
che fa di tutto per ricordare a Narios chi è e da dove proviene. Ma
le cure della direttrice fanno svanire in Germil persino la memoria
della propria famiglia e lo spingono a compiere un gesto estremo.
Questa è la sinossi del terzo racconto della collana Energie della Galassia, Carcere a Vita, pubblicato da poche settimane esclusivamente su Amazon Kindle.
Eccone l'inizio.
Carcere a Vita
Sono innocente. È quello che molti dicono di sé
in questo luogo dimenticato dagli dei. Io però lo sono veramente.
Vorrei urlarlo nel vuoto di fronte a me, ma la mia voce si perderebbe
tra quella di migliaia di altre.
Sono in un antro scavato nella roccia. Di fronte a
me l'enorme voragine ingoia grida, lamentele e dolore. La prigione è
un immenso buco che sprofonda nel terreno per decine di chilometri.
Lungo le pareti sono scavate le celle. Dentro ci siamo noi.
Ci sono centinaia di robot che si muovono senza
sosta, come api lungo le celle di un alveare. Portano cibo in
compresse, prelevano i carcerati, ne portano di nuovi. I malcapitati
sono trasportati sulle piattaforme, piccoli dischi volanti di qualche
decina di centimetri di diametro. Mantenersi in equilibrio evitando
di cadere è la prima prova di sopravvivenza. Quando qualcuno si
perde nel vuoto, nessuno sa che fine faccia.
Non esistono spazi comuni, né ore d'aria. Per
ognuno esiste solo la cella, le sbarre, i robot, un compagno e le
voci nella penombra.
Lui si chiama Narios. Dorme e vive nella branda
sotto la mia. Ognuno di noi ha un armadietto, un tavolo e uno
sgabello. Abbiamo un oloproiettore nell'angolo in alto a destra delle
sbarre. A fianco c'è l'unica luce fioca che combatte l'oscurità
della cella. Al di là di una porticina ci sono un lavandino e un wc.
Questa ora è la realtà dove vivo.
Quando sono arrivato sulla piattaforma volante
sorretto dalle braccia di due robot ai miei fianchi, Narios dormiva.
Non avevo idea di come fosse fatto un carcere e in
vita mia non avevo mai conosciuto dei detenuti.
I robot mi hanno lasciato sul pavimento della
cella. Ho sentito il rumore metallico e spettrale delle sbarre che si
chiudevano dietro di me. Ho cercato di distinguere le forme di fronte
ai miei occhi. Il letto era sulla parete sinistra e su di esso il
carcerato dormiva con la testa in direzione dell'ingresso. Ha tirato
su con il naso e si è voltato, infastidito dal rumore.
Le mie uniche nozioni su questo mondo erano quello
apprese dagli olomovie, dove i criminali si massacrano l'un l'altro
in continue risse.
Si è alzato e mi si è avvicinato.
Era più grande, alto e grasso di me, con pochi
capelli e la barba non fatta da circa una settimana. Vestiva una tuta
da carcerato blu scuro logora e piena di rattoppi.
“Ciao, io sono Narios.”
“Ciao, mi chiamo Germil.”
“Prima volta qui?”
Cosa intendeva? Certo che per me era la
prima volta. Non avevo mai fatto nulla di male in tutta la mia vita,
neppure rubato una caramella.
“Sì, certo” gli risposi.
“E cosa hai fatto?”
Non sapevo cosa rispondergli. Ancora non ero stato
informato del perché mi avessero portato lì.
“Ero a casa, di sera. Stavo mettendo a letto i
bimbi.” Mi sono fermato. Ripensare a loro mi ha fatto sentire un
intenso dolore al cuore. Poi ho continuato. “Mia moglie lavava i
piatti. Io ho lavato i denti ai piccoli, gli messo il pigiama e ho
iniziato a raccontargli una storia. Ho sentito suonare il citofono e
ho chiesto a mia moglie di aprire. L'ho sentita rispondere a delle
voci maschili. Poi ho sentito i passi di diversi individui entrare in
casa mia. Ho dato il bacio della buonanotte e sono andato in
soggiorno. Ho trovato due individui seduti ad aspettarmi, con altri
cinque in piedi. Mia moglie era pallida e mi guardava preoccupata.
Uno dei due sul divano mi ha mostrato un tesserino di appartenenza
alla sicurezza nazionale e mi detto che dovevo seguirli senza
fornirmi altre spiegazioni. Ho rassicurato mia moglie, dicendole che
sicuramente si trattava di un malinteso e che sarei tornato presto.
Non avevo idea di cosa volessero da me. Mi hanno condotto sulla loro
navicella. Una volta a bordo mi hanno informato che per ragioni di
sicurezza avrebbero dovuto farmi addormentare. Quando mi sono
svegliato mi stavano sbarcando su questo pianeta. Mi hanno detto che
per i crimini commessi sarei stato rimasto in stato di fermo in
attesa del processo. Poi due robot mi hanno fatto salire sulla
piattaforma che mi ha portato in questa cella.”
Terminato il racconto, la voce mi tremava. Ancora
non riuscivo a rendermi conto che stesse accadendo proprio a me.
Narios mi aveva ascoltato senza interrompermi.
“Hai fatto qualche cazzata?” mi ha chiesto in tono neutro.
Qualche cazzata? Vivevo
un'esistenza semplice e innocua. Ogni giorno mi recavo al
lavoro nella centrale energetica solare. Al termine del mio turno
tornavo a casa dalla mia famiglia. Con loro passavo insieme i fine
settimana in barca su lago a osservare gli uccelli, fare bagni
nell'acqua e giocare sulle isolette.
“No, sono un ingegnere. Non faccio altro che
lavorare e stare con la mia famiglia.”
La cella ha cominciato a girarmi intorno. Mi sono
dovuto appoggiare ad una delle sbarre del letto.
“Tieni, siedi, accomodati.”
Narios mi ha sporto uno dei due sgabelli. “Magari
hai fatto incazzare qualcuno?”
“Mah... non credo di avere nemici. Può esserci
tuttalpiù qualche collega con il quale vado meno d'accordo, ma non
ci sono mai stati problemi.”
“Capisco. Senti. Ci sono alcune cose che devi
sapere.”
Così Narios ha iniziato a spiegarmi le semplici
regole di vita in carcere.
Non si esce mai, per nessun motivo, tranne quando
si viene chiamati per le udienze ai processi. Ci si lava con l'acqua
del lavandino. Quando si lavano gli indumenti si rimane nudi. Il cibo
viene somministrato in pillole. I carcerati si occupano della pulizia
delle celle. Si può chiacchierare, consultare gli olobook di cui
siamo dotati, scrivere, fare esercizi quali flessioni, piegamenti e
addominali, pensare e dormire.
Se non ce la fai più non è difficile forzare le
sbarre delle cella per spiccare un bel salto nel vuoto e finirla lì.
Il carcere si chiama Varcoria e si trova su Plezis
III. E' una prigione tanto semplice quanto perfetta. La fuga è
impossibile. Non rimane altro che la cella o la morte, la vita o il
suicidio.
Trascorrono i giorni, tutti uguali. Sono compresso
in una routine senza fine: mangiare, dormire, lavarsi, leggere,
chiacchierare.
Narios mi racconta di sé.
“Mi sono fatto beccare con qualche chilo di
stupefacenti. Mi facevo e spacciavo. Quando esco di qui non vedo
l'ora di tornare a farmi con un po' di plezis puro.” Sembra che la
roba gli manchi davvero.
“Ma da quanto sei qui?” gli chiedo.
“Vent'anni...”
“Cosa? Stai scherzando? Ma come si fa a passare
vent'anni in questo posto? Dopo qualche giorno ti sembra già di
impazzire...”
“Il momento più difficile” mi spiega “è
quando arrivi a metà pena. Non so perché, ma in quel momento si ha
un crollo psicologico. Forse è il pensare a tutto quello che si è
vissuto qui e sapere di averne ancora altrettanto.
Si vive aggrappandosi ad ogni piccolo dettaglio.
Vedi, il tuo arrivo, ad esempio, è un evento. Hai sentito che quando
sei arrivato dalle celle a fianco alla nostra mi hanno chiesto se
fosse tutto a posto? Gli ho detto di sì e da giorni tutti si
interrogano su chi sei e sul perché sei qui. Ripensano a quando ti
hanno visto passare sulla piattaforma davanti alle loro celle, al tuo
aspetto, alla tua espressione.
Sembrano piccole cose, ma qui sono tutta la vita.”
Ascolto incredulo le sue parole. Narios sembra un
animale in gabbia. Si muove con una disinvoltura e una naturalezza
che mi mettono a disagio. Sembra trovarsi nel suo mondo, a casa sua.
Mi spaventa vederlo così adattato a questa realtà. Mi rendo conto
che dopo vent'anni non potrebbe essere altrimenti.
“Ogni tanto qualcuno di noi sbrocca” mi dice
“e noi cerchiamo di aiutarlo. Il compagno di cella in genere fa di
tutto per tenergli su il morale. I vicini danno consigli. Ma a volte
ti chiudi in te stesso e non ne esci più. Tutto perde di
significato. Non vedi più la fine e il salto nel vuoto ti sembra una
liberazione. Quando qualcuno di noi se ne va, non parliamo di altro
per settimane.”
Le chiacchiere sono l'unica cosa che questa gente
ha. Le voci da un cella all'altra sono un brusio incessante.
In cella c'è un oloproiettore su cui trasmettono
decine di migliaia di canali di ogni tipo. Mi piacerebbe ogni tanto
guardare qualche film o dei notiziari, ma quando iniziamo la visione
di qualcosa a Narios in genere dopo un po' viene voglia di parlare.
Sembra non riesca a mantenere la concentrazione su qualcosa a lungo.
Chissà che in questo periodo non sia solo eccitato dalla novità
della mia compagnia!
“Ti aspettavi così la vita in carcere?” mi
chiede un giorno.
“Bèh... conoscevo quello che vedevo negli
olomovie – tante scene di violenza e sopraffazione e le
spettacolari fughe di prigione.”
“Ogni tanto qualche compagno di cella che se le
dà c'è, ma per lo più qui le gente cerca di tenersi su di morale.
In quanto alle fughe, arrampicarsi su una parete è impossibile. Ci
sono centinaia di robot che sciamano su e giù tutto il tempo. Se
qualcuno è tanto folle da provarci non fa più di qualche metro
prima di essere beccato.”
Varcoria è tanto semplice quanto perfetto.
Gli racconto della mia vita e del mio lavoro.
Cerco di tenermi sul vago, senza informazioni precise su dove vivo o
in quale centrale solare lavori. Dagli olomovie ho imparato che non
si danno mai dati troppo precisi su di sé quando si è in carcere.
“Tu non sei un delinquente. Io quelli come me li
conosco. Tutti qui dicono di essere più o meno innocenti, ma
sappiamo chi lo veramente. Tu non sei come noi. Non appartieni a
questo luogo. Vedrai che ti faranno un po' penare in attesa del
processo, poi, quando andrai all'udienza, spiegherai chi sei e dopo
qualche giorno ti faranno uscire.
A volte vogliono solo essere sicuri che se sai
qualcosa non gli fai perdere tempo e quando te lo chiedono vuoti
subito il sacco. Se prendono uno come te e lo sbattono qui dentro,
sono sicuri che dopo qualche giorno di inferno gli spifferi tutto.”
Parla con sicurezza. Vent'anni di questa vita
sembrano avergli fatto capire come funziona la giustizia. Vorrei
avesse ragione.
Alla mia famiglia cerco di non pensare. Quando non
riesco ad allontanare il pensiero, il cuore mi sembra scoppiare. Per
loro deve essere ancora più difficile che per me. Almeno io so che
sono vivo, che sto bene e che posso resistere. Mi chiedo come sappia,
Sofia, mia moglie e come faccia a resistere. Cosa avrà raccontato ai
nostri figli? Sicuramente gli starà dicendo che sono via per lavoro.
A volte l'azienda organizza delle trasferte per dei corsi di
aggiornamenti. Sono le uniche occasioni in cui mi separo da loro.
Vorrei tanto poterli riabbracciare presto!
Rifletto senza sosta su quello che dirò
all'udienza. Voglio spiegare bene quale è il mio ruolo alla
centrale, cercando di essere il più chiaro ed esaustivo possibile su
ogni dettaglio. Il giudice deve capire che non ho mai fatto nulla di
male.
Ne parlo con Narios. “Io ti credo. Quando capita
qualcosa mettono dentro un mucchio di gente. Quando poi trovano chi è
stato, fanno uscire gli altri.” Fa una pausa. “Tu non centri un
cazzo con il carcere. Quando ci avranno capito qualcosa, te ne
tornerai a casa.”
Mi sembra un meccanismo perverso eppure ora sarei
pronto ad accettare qualsiasi condizione pur di tornare a casa. Mi
vengono però mille dubbi. E se il motivo per il quale sono qui
dentro non fosse legato a qualcosa accaduto alla centrale? E se
qualcuno mi accusasse ingiustamente per coprire sé stesso? E se
avessi senza accorgermene fatto veramente qualcosa di sbagliato?
Se sbatti un innocente in carcere gli fai venire
il dubbio di essere colpevole.
Mi ricordo che quando ero alle scuole elementari
un compagno di classe aveva sporcato il muro con dei colori pastello.
Interrogato dalla maestra aveva puntato il dito nella mia direzione.
Io non avevo neppure capito cosa fosse accaduto, ma avevo dovuto
subire i rimproveri.
Dopo qualche giorno un robot si avvicina alla mia
cella e mi chiama a colloquio. Mi alzo e mi avvicino alle sbarre con
il cuore che mi scoppia. La paura di ricevere qualche brutta notizia
mi terrorizza.
“La tua udienza è fissata di fronte al giudice
Artis Majioris tra due giorni, il 27 ottobre 2127” dice il robot
con tono neutro.
Per ore non faccio altro che ripensare alle
diciotto parole dell'automa.
Mi ripeto incessantemente quello che vorrei dire
all'udienza.
Arriva il giorno. In bagno mi preparo con cura.
C'è un piccolo specchio un po' rotto. Passo il pettine in dotazione
sotto l'acqua del lavandino e aggiusto i capelli biondi finché la
piega è perfetta. Mi rado. I miei occhi azzurri osservano la
mascella pronunciata. La rasatura è impeccabile. Peccato che il
giudice non sia una signora! In circostanze normali eserciterei un
certo fascino.
Aspetto l'arrivo dei robot seduto sullo sgabello.
Narios, per distrarmi, mi racconta del suo lavoro, quello ufficiale.
Era un cuoco – anche molto bravo, a suo dire. Non riesco a
concentrarmi più di tanto sulle sue parole, ma mi fa piacere
sentirlo al mio fianco.
Due robot, con una piattaforma vuota tra di loro,
arrivano in volo e si fermano di fronte alle sbarre della cella, che
si aprono automaticamente. Mi alzo e avanzo verso di loro. Una volta
sul vuoto mi giro vero la cella. Sento le loro mani afferrarmi per le
braccia per evitare che possa cadere. Silenziosamente iniziamo a
muoverci vero l'alto e il centro della voragine.
Guardo i visi dei carcerati di cui ho solo sentito
le voci per giorni. I loro occhi sono fissi su di me. Sanno che nelle
prossime ore mi giocherò la vita.
Gli altri robot si muovono senza sosta davanti
alle celle. Portano con sé gli scatolotti che contengono cibo e
medicinali. Alcuni accompagnano altri detenuti che hanno negli occhi
lo stesso sguardo incredulo e spaventato che immagino di avere anche
io. Le sequenza delle celle si perde nell'oscurità, in alto e in
basso.
Dopo qualche minuto scorgo un quadrato della
parete di circa centocinquanta metri per lato perfettamente liscio.
Al centro c'è un'apertura, un breve corridoio e una porta metallica.
Siamo diretti lì.
Superata la porta, camminiamo in un lungo
corridoio con pavimento, muri e soffitto metallici. Superata una
secondo porta entro in una stanza circolare di circa venti metri di
diametro.
Pareti, soffitto e pavimento sono bianchi. Al
centro vedo una sedia.
“Accomodati. L'udienza avrà luogo tra tre
minuti” mi informa uno dei due robot. Mi lasciano solo. I
programmatori dell'intelligenza artificiali di questi automi gli
hanno concesso dono della sintesi, penso con un sorriso amaro.
Mi dirigo al centro della sala. Mi siedo e
aspetto.
Pavimento e muri scompaiono. Sono al centro di
un'aula di tribunale. Conosco questa tecnologia. E' un tipo di realtà
virtuale dove lo scenario intorno è una proiezione e gli oggetti
sono ologrammi. E' indistinguibile da un luogo reale, a meno che non
si cerchi di toccare gli oggetti.
L'aula è vuota. Dopo diversi minuti entra il
Giudice. E' giovane, capelli scuri, corti, con la riga a destra.
Consulta un olobook. “Buongiorno” mi dice, senza alzare lo
sguardo. Nella sua aula, penso, sicuramente compaio anche io come un
ologramma.
“Sono Artemio Geracis. Sono qui per registrare
la sua dichiarazione. Vuole procedere?” Artemio Geracis? E chi
è? Dov'è il giudice Artis Majioris? Esamino l'individuo di
fronte a me, ha l'aria di essere un passacarte.
Mi faccio forza. “Buongiorno Giudice. Ero stato
informato che l'udienza si sarebbe tenuta in presenza del giudice
Artis Majioris.”
Errore, l'ho sicuramente infastidito con la
mia domanda. E infatti me lo fa notare. Alza lo sguardo con
sufficienza. “Il Giudice non può essere presente a questa udienza
a causa di altri impegni. La sua dichiarazione gli sarà inviata
telematicamente. Proceda pure.”
“Domando scusa, ma durante il periodo di
detenzione non sono stato reso edotto circa le cause della stessa. È
possibile avere maggiori informazioni sul motivo del mio
incarceramento?” Mi sembra ora di avere un atteggiamento formale e
pulito. La mia è una richiesta più che ovvia. In teoria non dovrei
averlo innervosito di nuovo.
“Senta, non è mio compito fornirle informazioni
di questa natura. Io sono qui per la sua dichiarazione. Se non
intende procedere, riporterò che ha preferito astenersi.”
Sono terrorizzato. La situazione ha assunto
contorni assurdi e surreali. E' un sogno o uno scherzo? Intanto il
passacarte alza il capo e mi punta con lo sguardo, spazientito.
“Giudice, posso nominare un avvocato che mi
assista?”
“La sua assistenza legale sarà demandata ad un
avvocato d'ufficio, il cui nominativo sarà comunicato alla sua
famiglia. Tuttavia, non le sarà consentito comunicare con il suo
legale per questioni di sicurezza.”
Sicurezza? Ma in che casino sono capitato?
Non so né di cosa sono accusato, né chi sarà il mio avvocato e
devo fare una dichiarazione su non so che cosa.
Mi sento mancare, ma mi faccio forza e racconto
chi sono e cosa faccio, quali sono le mie mansioni al lavoro, chi
frequento. Evidenzio come non ci siano zone d'ombra nella mia vita.
Tento di dare un quadro completo. Provo a capire dalla sua
espressione se sono stato convincente.
“Ha terminato?” In effetti, non ha
espressione.
“Sì” annuisco con la testa.
L'aula scompare. La stanza circolare torna ad
essere bianca. Si apre la porta dietro di me. Mentre mi gira la
testa, sento i robot di nuovo al mio fianco. Il pensiero della cella
nella quale probabilmente sto per tornare mi fa venire voglia di
vomitare.
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